lunedì 14 dicembre 2009

Famiglia…ma quanto mi costi?

Questo uno degli interrogativi sollevati dal libro recentemente pubblicato dagli economisti Alesina e Ichino dal titolo “L’Italia fatta in casa” (ed. Mondadori).
Del libro ho potuto leggere solo un breve estratto ed un commento dell’economista Gavazzi sul Corriere della Sera, ma gli argomenti sviluppati mi sembrano interessanti.

In sintesi: tutti sappiamo quanto la famiglia sia importante nel contesto socio-economico italiano (pensiamo ai figli che rimangono a casa ben oltre i loro coetanei europei, pensiamo alle donne che rimangono a casa per seguire i figli o per occuparsi di familiari anziani, dei genitori che intervengono economicamente per sostenere i figli in difficoltà a seguito della perdita del lavoro, ecc.).

La tesi sostenuta dal libro è che l’affidare alla famiglia questi compiti (che in altri paesi vengono svolti dal welfare/dallo Stato) è una scelta che ha comportato e comporta tuttora costi elevati.

Qualche esempio di questi costi (la seguente è una mia sintesi, molto semplificata, giusto per condividere qualche riflessione con voi...):

Limitata mobilità geografica: spesso accade che i giovani si accontentino di un lavoro inferiore alle proprie qualifiche pur di rimanere vicini alla famiglia e alla “sicurezza” che questo comporta (questo fenomeno sembra confermato dai dati riportati nel libro, secondo i quali il 45% delle coppie sposate di età inferiore ai 65 anni vive nel raggio di 1 km dai genitori)

Inefficienza nell’allocazione delle risorse lavorative
: quando la ricerca del lavoro avviene vicino a casa, dunque in un contesto geografico limitato, è più elevato il rischio che il posto di lavoro venga trovato tramite raccomandazione (con il risultato che l’impresa che deve assume una persona non prenda magari la persona più capace ma semplicemente quella che è stata raccomandata, con un evidente impatto negativo sull’azienda stessa)

Limitata presenza delle donne nel mondo del lavoro: la maternità e la cura dei figli sono la causa principale di abbandono del lavoro da parte delle donne. La mancanza di istituti, come gli asili nido, oppure modalità di lavoro, vd. part-time e flessibilità degli orari, spesso non consentono alla donna altra soluzione che lasciare il posto di lavoro. Ricordiamo a questo proposito come la gran parte della spesa sociale del nostro paese vada in pensioni e non per le politiche sociali propriamente dette. Tra l’altro, la minore partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia, unita alla bassa fecondità del nostro paese, sono una delle cause che rende il rapporto tra anziani inattivi su occupati notevolmente peggiore nel nostro paese rispetto ad altri che pure hanno una longevità simile alla nostra.

Occupazione giovanile inferiore a quella di altri paesi (vd. anche il punto precedente sull’occupazione femminile) e limitati strumenti di protezione per chi perde il lavoro (versus protezione dei diritti di chi è già uscito dal mondo del lavoro ed è in pensione).

In sintesi: il libro, lungi dal mettere in discussione il valore della famiglia, porta a chiederci se un sistema diverso, che non obbligasse la famiglia ad occuparsi di tanti compiti che altrove vengono demandati allo Stato o al mercato non comporterebbe benefici in termini di benessere collettivo e qualità della vita (nonché una concezione più moderna di Stato e, forse, un diverso senso civico...).

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