lunedì 8 dicembre 2008

Essere o pensare di essere?

Ieri mattina riflettevo su una frase interessante detta da uno psicologo: "bisognerebbe vietare l'uso del verbo essere ai genitori".
Troppo spesso i genitori, convinti di fare il bene dei figli, fanno commenti del tipo "sei intelligente, sei pigro, sei uno sportivo, sei proprio stupido!".
Quando si cresce, queste interferenze limitano seriamente l'essere, condizionando il pensiero del bambino che, a forza di sentirsi ripetere la stessa cosa da una figura così rilevante come quella di un genitore, inizia a credere di essere davero come il genitore lo descrive, in negtivo tanto quanto in positivo.
Una delle attività più delicate per un bimbo è prendere coscienza di sé stesso, di quali sono i suoi tratti caratteriali e comportamentali, di qual è la sua natura.
E' un processo inconscio, che non può essere limitato o controllato, e che avviene naturalmente: un bambino deve avere dei forti punti di riferimento, senza i quali non potrebbe portare a compimento il processo di crescita e presa coscienza di sé.
Tuttavia, come e quanto le opinioni dei genitori influenzano la crescita? Quanto siamo quello che siamo e quanto quello che ci viene insegnato a pensare di essere?
Non ho delle risposte certe e non sono ancora madre per poter esprimere un giudizio da genitore, ma analizzando la mia personale esperienza di figlia, forse per alcuni versi sono portata a credere di essere qualcosa solo perché da piccola ho sentito spesso mia madre dirmelo. E se questa inluenza non ci fosse stata? Sarebbe cambiato qualcosa? E se sì, in meglio o in peggio?
A voi commenti e riflessioni!

2 commenti:

Lisa ha detto...

Cara Ele, sono d'accordo con quanto hai scritto.
Il codice civile ci insegna che i coniugi hanno l'obbligo di "[...] educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. Lo stesso verbo "educare" deriva da "ex ducere", cioè condurre fuori, quindi far uscire la vera natura dei figli.
Questo spesso non avviene. I genitori risentono del proprio retaggio culturale, che li porta ad assegnare ruoli precisi ai figli, in relazione ad esempio al sesso, o a quanto accadeva nella loro famiglia di origine, oppure basandosi su un'aberrante concezione di ereditarietà ("Ah sì, mio figlio è come me, anch'io non ho mai capito nulla di matematica!", "Ah, tu sei come tua nonna, testarda!"). O magari in quel momento il genitore ha bisogno di avere un figlio con determinate caratteristiche (brutta cosa l'egoismo!). Credo che queste etichette siano estremamente dannose perché, come giustamente scrivi, diventano punti di riferimento cui il bambino si uniforma. Secondo me però esiste un "momento della verità" in cui si comincia a guardare la propria vita da fuori, in modo più oggettivo, rendendosi conto che il mondo in cui si è nati e cresciuti non è l'unico possibile ma ce ne sono altri e anzi, il proprio mondo può contenere molte cose sbagliate, a cominciare dalle etichette appunto. L'ormai ex-bambino potrebbe anche scoprire di aver vissuto la sua vita ricoprendo un ruolo che non gli appartiene e, se è ancora in tempo e non ha fatto scelte definitive, può cambiare, altrimenti, be', credo possa anche essere condannato all'infelicità.
Del resto un rapporto educativo è fatto di quotidianità e di tante frasi, dette magari SENZA PENSARE e qui sta l'errore!
Da mamma e da insegnante mi confronto ogni giorno con questo tema e con il tempo ho imparato ad usare l'espressione "Ti comporti da..." per sottolineare un comportamento sbagliato. Bisogna imparare ad usare le parole, perché un genitore/educatore ha un potere enorme su una personalità in formazione. L'uso delle parole è importante e deve essere sempre curato e attento. Se si è stanchi o nervosi, allora è molto meglio fare il famoso conto fino a 10 prima di dare fiato alle corde vocali!

Beth (Elisabetta Comini) ha detto...

Sul fatto che in parte il nostro essere sia determinato da quello che ci siamo sentiti dire da piccoli (sul fatto di essere o non essere in un determinato modo...) non c'è dubbio...e in fondo, come dite, fa parte delle dinamiche "normali" (per quanto un po' criticabili...) che si instaurano tra genitori e figli. Penso che il punto essenziale sul quale è importante riflettere siano i fattori che ci consentono di arrivare a quello che Lisa chiama "il momento della verità". Mi riferisco a due elementi: 1)alla possibilità/opportunità di conoscere altre realtà (che chiamo "opportunità di confronto"), diverse da quella nella quale siamo cresciuti e 2) alla capacità di interrogarsi su quello che ci circonda (che definirei "spirito critico", che, lo sottolineo, non significa per forza contestazione...). Il confronto con altre esperienze e la capacità di critica ci aiutano infatti a capire i limiti, ma anche i punti forti della nostra educazione e del nostro processo di crescita. Per questo è giusto lasciare i ragazzi liberi di provare/di fare le loro esperienze, anche a costo, magari di qualche sbaglio. Da questo punto di vista la società italiana presenta a mio parere un evidente punto debole che consiste nella tendenza dei ragazzi (a causa di diversi fattori, non solo culturali, ma anche economici, sociali, ecc.) a restare a lungo in famiglia, anche in età "avanzata" (rispetto, ad esempio, ad altre culture, penso a quella francese ed inglese, nelle quali i giovani vengono incoraggiati a lasciare la casa presto e a cercare presto una occupazione con la quale contribuire al proprio mantenimento).